Sherpa morto sul k2: i fatti e il karma familiare – 1° parte

Lo Sherpa morto sul k2: i fatti

Sono diverse le premesse che ci tengo a fare prima di affrontare il tragico argomento dello sherpa morto sul K2 Mohammad Hassan:

    • Non è mia intenzione giudicare o esprimere sentenze nei confronti di nessuno. Piuttosto intendo analizzare i fatti accaduti e valutare cosa possano comportare dal punto di vista del “karma familiare” delle persone coinvolte. L’intenzione è analizzare “ciò che c’è”.
    • Quello che accade in montagna, specialmente nella cosiddetta “zona della morte” vale a dire sopra ai 7600 m, è difficile da comprendere. Lassù la concentrazione di ossigeno e la pressione sono così basse da rendere difficile le funzioni cerebrali e la sopravvivenza. Gli eventi di cui parlo oggi si sono svolti sopra gli 8000 metri.
    • Quando leggiamo di fatti accaduti in montagna, specie sull’Himalaya, dobbiamo partire dal presupposto che possano essere raccontati male, parzialmente o volutamente manipolati. E’ sempre bene, quindi, utilizzare il beneficio del dubbio quando si commentano.

Mohammad Hassan lo sherpa morto sul K2 il 27 luglio

Secondo quanto riportato dai media il 27 luglio di quest’anno sul k2 vi erano molti alpinisti che stavano salendo verso la vetta, sembra più di 50. 

Quel giorno Mohammad Hassan, uno sherpa dipendente della “Lela Peak expedition”, un’agenzia pakistana addetta alla logistica e alla preparazione delle corde fisse sulla via per il K2, è morto a causa di una caduta a seguito della quale si è rotta la sua maschera per l’ossigeno e si è ferito.

Mohammad, 27 anni, non era un alpinista esperto, bensì uno sherpa addetto all’organizzazione del campo base. Aveva volontariamente chiesto di prendere parte alla sistemazione delle corde fisse nella parte più alta della montagna per guadagnare qualcosa in più. I soldi servivano per le cure di sua mamma. Mohammad lascia una moglie e tre figli.

A rendere ancora più drammatica e sconcertante la notizia è stato un video girato da un drone di un alpinista austriaco, Philip Flämig, che mostra decine di alpinisti scavalcare il corpo di Mohammad per raggiungere la vetta. Un ulteriore doloroso dettaglio è che il video è stato girato circa tre ore dopo l’incidente e lo sherpa si muoveva ancora.

Fra gli alpinisti in corsa per la vetta vi era anche Kristin Harila un’alpinista norvegese che proprio grazie alla vetta del K2 ha stabilito il record di minor tempo per scalare tutti e 14 gli 8000: 92 giorni.

Questi sono i fatti. 

La polemica

Da parte di Flämig sono state poi lanciate parole di accusa verso il team della Harila per avere lasciato morire lo sherpa scavalcandolo e pensando solo ad arrivare in vetta. L’austriaco ha aggiunto che se fosse stato un occidentale sarebbe stato salvato e che non è accettabile lasciare morire un uomo in quelle condizioni. Secondo la sua versione lo sherpa era ancora in vita dopo la caduta e la sua agonia è durata ore.

L’alpinista norvegese si è difesa affermando che:

    • Il suo team ha fatto tutto il possibile per aiutare lo sherpa lasciando con lui ad assisterlo un cameraman
    • A quell’altitudine non sarebbe stato possibile fare altro
    • Lo sherpa non era attrezzato e vestito adeguatamente per quell’altitudine (notizia confermata dai colleghi che gli avrebbero consigliato di scendere).
Il k2 in una giornata serena. Il 27 luglio di quest'anno uno sherpa è morto sul k2
Photo by Daniel Born on unsplash

Cosa è successo dal punto di vista “sistemico”

Come anticipato non è mio interesse fare polemiche, giudicare o maledire questa triste vicenda. 

Attenendomi ai fatti, trovo invece che possa essere interessante provare a comprendere cosa sia successo dal punto di vista dei campi familiari coinvolti. 

Per fare questo utilizzo il linguaggio e la codifica delle costellazioni familiari.

Innanzitutto vi è una prima vittima: Mohammad, il quale ha pagato il prezzo più alto che esista per il successo della Harila e di tanti altri alpinisti.

Vi è poi una catena di responsabilità che a mio avviso vanno ad appesantire colpevolmente il karma dei presenti quel giorno sul k2 e non solo di loro. Vi sono, cioè, persone che hanno vissuto un successo grazie anche al sacrificio dello sherpa. In particolare, su tutti, Kristin Harila ha stabilito un record storico.

Se fossimo in una costellazione familiare

Se la scena fosse rappresentata in una costellazione, sarebbe necessario riconoscere il sacrificio della vittima. Onorare il prezzo che ha pagato, prendendosi la parte di responsabilità dell’accaduto. E’ grazie a chi porta l’attrezzatura, allestisce la via e le corde fisse per raggiungere la cima che poi alpinisti come la norvegese stabiliscono i record.

C’è di più.

Vi sono anche altre vittime: la vedova, i 3 figli dello sherpa e la madre malata per la quale erano destinati i soldi del lavoro di Mohammad.

In sostanza tutto l’attuale sistema familiare di Mohammad è coinvolto in questa perdita che va a svantaggio di tutti. Il prezzo da loro pagato è altissimo.

Come è altissimo il guadagno, lo storico successo della Harila. 

Si è creato uno squilibrio, un debito fra diversi sistemi familiari.

immagine del video girato in occasione della morte dello sherpa sul k2
Un fotogramma del video in cui si vedono gli alpinisti scavalcare il corpo di Mohammad Hassan

Cosa è stato fatto dopo l’incidente dello sherpa

Attenendoci il più possibile ai fatti  ciò che è stato fatto dopo l’incidente di Mohammad Hassan da parte della Harila è stato:

    • Proseguire verso la cima e il suo record. 
    • Festeggiare lo storico successo in vetta sui social e successivamente in altre sedi.
    • Giustificare l’incidente parlando dell’attrezzatura e dell’abbigliamento dello sherpa.

Dal mio punto di vista questi tre gesti hanno creato e appesantito quello che possiamo definire un vincolo karmico e il potenziale irretimento fra i sistemi familiari della norvegese e del pakistano.

In particolare:

    • Proseguire verso la cima equivale ad accettare fatalmente il sacrificio di Mohammad al fine di raggiungere l’obiettivo. La vetta è primaria rispetto alla vita dello sherpa.
    • Festeggiare un successo per il quale, o in occasione del quale qualcuno è morto, è un gesto che aggrava pesantemente il destino di chi lo fa.
    • Cercare giustificazioni riguardo l’incidente citando la scarsa attrezzatura dello sherpa, per quanto possa essere vero, è un modo per rigettare le proprie responsabilità materiali e morali sull’accaduto. 

Bibliografia consigliata:

copertina del libro: Sherpa, i custodi dell'Everest
Sherpa

I custodi dell'Everest - Pradeep Bashyal, Andkit Babu Adhikari

Il richiamo del k2

La dura lezione della montagna - Tamara Lunger

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